domenica 12 agosto 2018

IL PONTE DI SANT'ANTUONO

Dalle profonde riserve nelle viscere della catena montagnosa dell'Appennino Lucano, con al centro il massiccio del Volturino (1836 m.), sorgono rigogliose, limpide, fresche e chiare le acque che alimentano il fiume "La Terra". Si arricchisce, lungo il corso, di numerosi rivoli, discendenti da vallette e canali mormoranti e chiacchierini, e delle acque che attraverso i profondi strati di zolfo e ferro, residuati dell'antico vulcano, sboccano in una stretta gola dalle stupende caratteristiche, tra piccole cascate e placidi laghetti. Inoltrarsi per questa insenatura, perennemente ombrata dalla fittissima vegetazione, è, sì dura fatica, ma anche incomparabile gioia per la densa e profumata ricchezza di tutte le qualità di erbe e di fiori, di arbusti e di alberi pregiati.


 

Il corso d'acqua che viene a formarsi s'ingrossa via via fino ad arrivare, nei pressi dell'abitato, fiume, un dì ricco di trote, anguille, sarde, gamberi. La pescosità era notevole e soddisfaceva il fabbisogno ittico della popolazione. Ora, purtroppo, l'inquinamento e la pesca incontrollata, hanno quasi distrutto questa ricchezza. Bisogna inoltrarsi molto lontano, verso il lago "La Ferrara" per sperare di riempire il paniere e godere della gioia della pesca.

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Quando nel 1150 circa, intorno al Monastero di Santa Maria "de Plano" si iniziò l'insediamento abitativo, attratto dalla presenza dei monaci, il fiume era una notevole fonte di ricchezza per la sua pescosità, per l'irrigazione degli orti e per uso potabile. Si usava infatti, e questo fino al principio del secolo corrente, scavare nel greto per ottenere zampilli di acqua limpida e leggera, atta alla potabilità.
Oltre il fiume, alle falde della collina "Timpo del Castagno", si stendeva un dolce, largo declivio degradante dal castagneto fino a lambire le acque. L'accesso veniva effettuato con passerelle incerte e traballanti, spesso spazzate via dalle frequenti piene.
Si avvertì il bisogno pressante di lanciare un ponte stabile e sicuro, che agevolasse uno scambio facile e continuo con i residenti che si andavano moltiplicando, e per la coltivazione degli orti.
Siamo all'inizio del 1200. L'agglomerato abitativo era già fitto, non solo nei dintorni del Cenobio, ma lungo tutta la piana.
L'attività lavorativa nelle sue molteplici espressioni, era intensa. La febbre delle costruzioni invadeva tutti. Sorgevano case addossate le une alle altre, separate da vicoli stretti e bui, seguendo il corso del fiume e nei due sensi est-ovest.
Anche il fervore religioso era assai notevole, e si esprimeva nell'innalzare cappelle e tempietti in onore di Santi, proposti alla devozione popolare dai monaci.
In gara con i "chianaiuoli", gli abitanti al di là del fiume, costruirono una chiesetta dedicandola a Sant'Antonio Abate, detto comunemente "Sant'Antuono", termine che denomina il nuovo rione.
La forma architettonica del tempio è assai semplice: si erge su un arco ribassato al centro dell'aula. Nella nicchia centrale è esposta una pregiata scultura lignea bizantineggiante, raffigurante il Santo. L'espressione è quanto mai forte e profonda; il capo leggermente chinato in avanti, accusa una ieraticità sofferta, ma soffusa di celestiale letizia. Con la sinistra regge la regola monastica, sormontata da una fiamma viva; la mano destra invece impugna un vincastro; sostenuto da questo, il Santo sembra venirti incontro, invitante e paterno.
La popolazione del rione è particolarmente devota verso il protettore del fuoco e degli animali. I festeggiamenti, anno dopo anno, si espandono sempre più, con manifestazioni esterne diverse, che vorrebbero rifarsi al passato.
Si è già detto dei fuochi che divampano in ricorrenza della festa dei galli e degli altri animali minuti, sacrificati al gioco della falce, in una gara rusticana di dubbia civiltà. Con decenza queste crudeltà vengono consumate nella segretezza delle stalle o altri meandri, lontano dalla vista della gente sensibile e delicata. Ma vi era un'altra usanza, ora scomparsa.
Per far fronte alle spese dei festeggiamenti, si proponeva la raccolta spontanea di grandi cataste di legna da ardere, che i devoti, entusiasticamente, rispondendo all'appello, deponevano avanti la Chiesa.
Il materiale, di solito querce e cerri, ricercatissimo perché legna di Sant'Antuono, capace, nella credenza, di sprizzare maggiore calorie, veniva venduta a caro prezzo, a mezzo di gara vivace e spesso in contesa furibonda.
Molti serbavano religiosamente i ciocchi più grossi e meglio modellati, quali talismani a protezione del focolare e scongiuri contro gli incendi.
La mattina del 17 gennaio, festa del Santo, il sacerdote benediceva i fuochi divampanti che venivano poi assaliti dalla folla contendendosi i vari tizzoni e le alte cataste di legna, tra il tripudio degli astanti e al tambureggiare della banda che si scioglieva poi in frenetici ritmi per i balli intorno ai falò.
Tuttavia la caratteristica particolare della devozione verso il Santo, e che durava tutto l'anno, era la crescita, a pascolo brado, per le vie cittadine del maiale, meglio detto, "puorc' di Sant'Antonio
Il suino fin da piccolo, e anche più di uno, veniva lasciato in libera circolazione, non aveva una fissa dimora: non un porcile, non un truogolo, non una pozzanghera ove sguazzare, grugnendo beato. Circolava per tutte le strade e vicoli e ognuno si premurava di dargli il mangime prelibato, composto di ghiande, cerri, granoturco e beveroni, tolto, magari, al proprio suino Al suo passaggio, segnato da abbondanti feci, olezzanti di profluvi nauseabondi, era accolto benevolmente quale benedizione speciale del Santo e, al tramonto l'ultimo ad incontrarlo doveva ospitarlo nel proprio porcile in compagnia non gradita del maiale che si cresceva. Accadeva che l'intrusione dell'estraneo nella stalla non sua, era mal sopportata dal legittimo occupante, sì che tra i due animali si accendevano baruffe furibonde con alti e rabbiosi grugniti da svegliare i vicini, che non reagivano. Bisognava aver pazienza! Era sempre "lu puorc"' di Santantonio!
E così dopo un anno di libero passeggio per le vie cittadine, in compagnia di galline, pecore, gatti e cani randagi, veniva sacrificato con riti particolari e grande tripudio il 16 gennaio, vigilia della festa. Il 17, poi, veniva ben preparato e diligentemente suddiviso in: cotechino, zampone, fegatello, pancetta, ventresca, insaccati vari, prosciutto, costate e fettine; veniva cucinato sulla brace del fuoco benedetto. Tutto veniva venduto tra cotto e crudo e, ognuno agognava portarsi a casa, in mancanza di altro, almeno una setola, quale benedizione, de "lu puorc" di Santantonio! .
Non si hanno notizie certe circa l'origine del rione Sant'Antuono. I suoi abitanti con ogni probabilità provengono da un diverso ceppo, immigrati nella zona e attratti dalle fiorenti attività monastiche. Il loro insediamento è posteriore di almeno 50 anni, e si notano accentuate diversità somatiche, di carattere, di portamento e di flessione nel linguaggio. Tali caratteristiche si sono mantenute pressoché inalterate per lunghissimo tempo, favorite dal fatto che le relazioni umane, gli scambi e i matrimoni avvenivano quasi esclusivamente nell'ambito del rione, con esclusione degli estranei.
Le relazioni tra i due insediamento, quello del "Piano", gravitante sul monastero, e quello di "Sant'Antuono", erano scarse, difficili e spesso contrastanti.
La costruzione del ponte, lanciato tra le due sponde dai Benedettini, allo scopo di amalgamare e unire le famiglie, favorirne le relazioni e gli scambi, in realtà si dimostrò causa di violenti contrasti.
La causa naturalmente era l'uso e l'utilizzazione delle acque del fiume per l'irrigazione e l'esercizio della pesca.
Si accendevano lotte furibonde e risse violente, alimentate da rancore e odio. Il ponte facilitava questi scontri per la possibilità di venire a contatto fisico con l'avversario. Tuttavia, anche se le relazioni erano poco morbide, caratterizzate da frizioni, col passare degli anni, e mercé l'opera pacificatrice dei Religiosi, il ponte rappresentò e facilitò l'unione del paese, evitando una divisione tra le due sponde, netta e decisa.
La costruzione del ponte fu eseguita da artigiani locali, sotto la direzione tecnica e la vigilanza continua ed attenta dei benedettini, abilissimi ingegneri pontieri ed architetti.
E' un manufatto tecnicamente perfetto, e nella sua semplicità, armonioso e funzionale. Denota una conoscenza chiara, e di stile e di metodo di esecuzione. Tutti gli elementi costitutivi sono rispettati. E' un arco ribassato in pietrame in conci. Dalle fondamenta ben solide, alla spalla, al rene, al rinfianco e intradosso ed estradosso corrono perfetta armonia e precisione assolute.
Alla tecnica, così altamente studiata e messa in opera, si deve se il manufatto ha resistito e resiste tuttora alla furia e alla erosione delle acque, che si accaniscono contro gli spalti paurosamente, nelle frequenti piene d'inverno per l'abbondanza delle piogge, di primavera per lo scioglimento delle nevi, accumulate sulla serra di Marsico e sul massiccio del Volturino.
Lungo il corso dei secoli, e fino all'inizio del 1900, il manufatto non ha subito alterazioni, nè gli sono state apportate riparazioni o date altre cure particolari.
Esso ha continuato, da solo, a smaltire il traffico tra una sponda e l'altra, essendo l'unico punto di riferimento per l'attraversamento del fiume.
Calvello è tra i pochi centri abitati lucani, bagnati da un corso d'acqua a flusso continuo.
Il ponte è stato, ed è tuttora, un'opera che caratterizza e distingue il paese. Esso si incastona in uno scenario particolare, fatto di un profondo verde, intenso ed esteso, con a Nord un agglomerato di case che si inerpica verso l'alto e culmina col "castello"; ad ovest la fiancata massiccia della catena montagnosa oltre i 1700 m.; ad Est la dolce vallata dell'Isca, corrente verso il Camastra, passando per San Pietro; a Sud è protetto dal "Timpo del Castagno".
Le condizioni statiche del ponte non hanno mai destato serie preoccupazioni. Ciò che invece produceva amarezza e sconcerto erano le manomissioni apportate in questi ultimi 50 anni ad alcune strutture. Per fortuna la volta e l'infradosso, fino alla fondazione si erano salvati da alterazioni. Invece, l'impiantito a gradini, i parapetti con il cordolo-corrimano, rifatti a cemento e a pietre levigate e filettate, avevano sconvolto la visione armonica dell'opera. Questi inconsulti interventi, eseguiti senza tener conto dello stile e dell'architettura particolare del 1300, avevano lacerata la bellezza dell'insieme.

Ora per l'intervento della Soprintendenza di Potenza, sollecitata da quanto sopra scritto, la struttura è ritornata, dopo accuratissimi lavori, ben studiati ed eseguiti con professionalità e competenza, allo splendore d'un tempo.
Lo ammiriamo così come tanti secoli fa veniva lanciato tra le due sponde del fiume dai lungimiranti e competenti Padri

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